Ora che lo sai? #2

Ma che m’importa del genocidio in Ruanda?

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Secondo te, cosa hanno in comune le discriminazioni, le persecuzioni e gli stermini che tutt’oggi interessano la nostra epoca? Qual è il filo rosso che lega le fosse comuni di Bucha, in Ucraina, alla Shoah, all’eccidio dei Tutsi in Ruanda o a quello di Srebrenica, in Bosnia, al regime di segregazione di Israele verso i Palestinesi o alle migrazioni forzate dei Curdi e dei Rohingya in Myanmar? Cosa alimenta i muri di separazione e i campi di detenzione in Libia, negli USA, in Turchia, dove vivono milioni di profughi, inclusi bambini e adolescenti, e per cui anche l’Italia e l’Europa pagano affinché lì rimangano?

Ruanda, il paese delle mille colline.
Questo scatto è stato gentilmente donato dall’amico e collega ruandese Venuste.

 

Baruffe tra selvaggi

Proprio in questi giorni, solo ventotto anni fa, in un piccolo paese dell’Africa orientale, si stava consumando uno degli eccidi più sanguinosi del XX secolo. Se il nome Tutsi non ti suona familiare, quasi sicuramente avrai sentito parlare dei Watussi, “quel popolo di negri alle falde del Kilimangiaro” di cui cantava Edoardo Vianello.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, i leader politici, inorriditi dai crimini perpetrarti dal regime nazista, adottarono la Convenzione internazionale sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, entrata in vigore nel 1951, affinché nulla di simile potesse mai più ripetersi. A distanza di poco più di quarant’anni, tuttavia, tra aprile e luglio del 1994, qualcosa di analogo accade in Ruanda: quasi 1 milione di persone brutalmente uccise in meno di tre mesi. Non nelle camere a gas, non per mezzo di tecniche industriali avanzate, bensì con strumenti rudimentali quali asce, mazze e, soprattutto, maceti.

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